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The House That Jack Built (La casa di Jack)

  • Immagine del redattore: Mind Out
    Mind Out
  • 1 apr 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 2 apr 2019

a cura di Giulia Leto


Regia: Lars von Trier Cast: Matt Dillon – Jack, Bruno Ganz- Verge, Uma Thurman – donna primo incidente Soggetto: Lars Von Trier

Sceneggiatura: Lars von Trier Montaggio: Molly Marlene Stensgaard

Fotografia: Manuel Alberto Claro

Paese: Danimarca, Germania, Svezia, Francia, Belgio

Anno: 2019

Durata: 152 min

Un buio assordante e due voci fuoricampo che parlano pacatamente di una vita. La vita di Jack. È questo l’inizio dell’ultima opera del maestro Lars von Trier, che torna di nuovo sul grande schermo dopo circa 6 anni di assenza. Ma non lo fa certamente passando inosservato. La trama è semplice: uno psicopatico di nome Jack (Matt Dillon) che soffre anche di un disturbo ossessivo-compulsivo, nutre un forte godimento nel togliere la vita nella maniera più brutale a più di sessanta persone. Troppo semplice. Non è certamente una pellicola splatter degna dei peggiori cimeli americani. Dentro questo capolavoro di sangue e sofferenza c’è tutto il Lars von Trier che andiamo cercando. Ci sono le sue fobie, le sue ossessioni, le sue manie. D’altra parte un film diventa d’autore esattamente quando questo vi è pienamente dentro e lascia il segno. E lo lascia, lo lascia eccome.


Quando sentimmo parlare la prima volta di questo capolavoro fu in occasione del Festival di Cannes dello scorso anno. Gran parte del pubblico si alzò dinanzi alla crudeltà di Jack, lasciando le poltrone del celebre concorso. E la domanda che sorge spontanea è: che vi aspettavate? Potevate realmente pensare che il regista del “Dogma 95”, delle dichiarazioni sul nazismo fatte in un’edizione precedente dello stesso Festival, delle scene sadiche di “Antichrist”, potesse tornare e presentare un film parente di Cenerentola? La risposta è ovvia. Lars von Trier è tornato e ci presenta un fantastico viaggio dalle sembianze, a tratti, dantesche, nella crudeltà umana. Un dialogo con la morte nella morte che riecheggia la celeberrima storia di Jack lo squartatore e ricorda il freddo cinismo del capo dei Drughi, Alex, figlio prima di Anthony Burgess e poi di Stanley Kubrick. Una pellicola che diventa anche una perfetta lectio magistralis di arte e colma di riferimenti alla zoologia ed, in particolare alla caccia, tipici del maestro danese.


“La casa di Jack”, oltre a tutto questo, è un perfetto schiaffo alla moralità ed al pudore che risiede in noi. Quella frase “Lei che lavoro fa?”, “Io uccido”, ripresa sapientemente da un cortometraggio figlio sempre dello stesso regista nel 2007, si pone come un macigno dentro lo spettatore che, incredulo, assiste al simpatico massacro dell’umanità.


Così, quel dialogo iniziale che sembra svolgersi fra paziente ed analista (Bruno Ganz, recentemente scomparso), diventa un viaggio di “cinque incidenti” ed un “epilogo”, in cui Jack narra la sua storia da serial killer misogino e perfezionista. Quello stesso dialogo a due voci a cui ci aveva abituato con “Nynphomaniac” parte uno e due, attraverso il quale, il regista, poneva due punti di vista, due letture differenti apparentemente parallele e quindi prive di accordo, dell’esistenza umana, ma che, inevitabilmente, alla fine si incontrano.


Jack è un crescendo di perfezione, un chirurgo artistico della morte. È un ingegnere frustrato che avrebbe voluto fare l’architetto e trascorre le sue giornate, fra un omicidio e l’altro, a progettare la sua nuova casa, di legno prima e di corpi dopo. Quella stessa casa che rappresenta l’edificio dell’orrore che risiede dentro di lui. Jack si trasforma, cambia, e lo fa insieme a noi. Le sue ossessioni irritanti perdono la forma originaria, l’istinto animalesco e la goffaggine iniziale, lasciano spazio ad opere d’arte ineccepibili nella forma e nel contenuto. Si guarda allo specchio e cerca disperatamente (forse) tutte le emozioni del mondo “normale”, come ogni psicopatico. Jack e Von Trier dovranno giungere al Paradiso per poter abbandonare il fardello insopportabile che si portano dentro. Ma la luce, si sa, si vede solo dopo l’Inferno. Giulia Leto

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