The Favourite (La Favorita)
- Mind Out
- 29 mar 2019
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 1 apr 2019
a cura di Matteo Miceli

Titolo originale: The Favourite
Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Deborah Davis, Tony McNamara
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Yorgos Mavropsaridis
Cast: Emma Stone, Rachel Weisz, Olivia Colman, Nicholas Hoult
Paese: Irlanda, Regno Unito, Usa
Anno: 2018
Durata: 120 min
Breve intro: interni, una stanza arredata con mobili, tende, quadri, fregi ed ornamenti. La telecamera avanza lentamente verso una figura maestosa rivolta di spalle, aiutata da due serve a togliersi gli abiti regali. Sulla sua testa giace una corona d’oro: è la regina. La solennità del momento è enfatizzata da un brano di musica classica per archi. Apprendiamo da un breve dialogo che ha appena incontrato i suoi sudditi. Non ci viene mostrato il suo discorso, ma l’intimità di una stanza da letto, il momento in cui i personaggi si liberano degli eccessi sfarzosi e gettano le maschere. Sarà uno dei temi ricorrenti del film. Titoli di testa. Parole bianche su sfondo nero: the Favourite. Ma c’è qualcosa di strano. Inizialmente l’unica lettera visibile è l’“h”, centrata nella sezione superiore dell’inquadratura; pochi istanti dopo ai suoi lati compaiono contemporaneamente “t” ed “e”, e solo alla fine la parola “Favourite” nella sezione inferiore. Perché questa scelta?

La Favorita è un film del 2018 diretto dal regista greco Yorgos Lanthimos, al suo settimo lungometraggio e terzo di produzione statunitense. Una tragedia comico-grottesca in costume ambientata nell’Inghilterra del 700, sullo sfondo della guerra di successione spagnola, ed incentrata sulle reali vicende (seppur romanzate) che videro contrapposte la duchessa di Marlborough Sarah Churchill (Rachel Weisz), consigliera e confidente della regina Anna Stuart (Olivia Colman), e la cortigiana Abigail Hill (Emma Stone), cugina della duchessa, caduta in miseria e disposta a tutto pur di ottenere il tanto agognato riscatto sociale. Si daranno battaglia per conquistare le grazie della regina, in un triangolo di sesso, simulazioni, giochi di potere ed alleanze strategiche. Un dramma storico di stampo teatrale che riecheggia lo spietato arrivismo di Eva contro Eva, in una sorta di rilettura di Barry Lyndon in chiave femminile, la cui freddezza, tipica del cinema europeo, si rifà tanto al classicismo delle geometrie euclidee di Kubrick quanto al glaciale distacco di Michael Haneke, fino a sfiorare le torbide ossessioni di Lars Von Trier. Dipinte da uno sguardo cinematografico paragonabile a quello di un pittore, ogni inquadratura diventa una tela che il regista arricchisce di dettagli, elementi pittorici e giochi di luci, impreziosite da una messa in scena elegante e rigorosa, ma mai austera, un’illuminazione in chiaroscuro che fa risaltare volti che sembrano galleggiare nell’oscurità, e una regia che alterna campi lunghi, lente carrellate, ralenti, grandangoli, fish eye e sovrimpressioni: ce n’è abbastanza per tirare in ballo Kubrick e Welles.

Il montaggio serrato di Yorgos Mavropsaridis, ora parallelo ora alternato, scandisce il ritmo della narrazione secondo una suddivisione in atti, come una tragedia greca; o ancora meglio in “movimenti”, come una sinfonia.
Una composizione guidata dalle voci femminili, che ne dettano l’andamento, nella quale le note (i personaggi) si scontrano tra loro secondo relazioni di consonanze e dissonanze, di amore e odio, di verità e menzogne; ed il leitmotiv è costituito dalla rappresentazione di uno scontro che, col procede degli eventi, assume i connotati di una partita a scacchi, dalla quale le pedine usciranno devastate tanto nella mente quanto nel fisico. Ciò che stupisce maggiormente dello sguardo di Lanthimos è l’estrema carnalità delle situazioni: durante tutto il film, i personaggi rotolano nel fango, si feriscono, si ammalano, vomitano, scopano; come se il regista volesse dipingere un’aristocrazia nauseata da sé stessa. Un elemento in particolare è sintomatico della loro malattia: il trucco che ricopre i volti e lo sfarzo degli abiti, orpelli funzionali alla messa in scena, nel grande teatro della vita a corte, della potenza e dello sfarzo della società aristocratica. Ma quel trucco eccessivo sui volti e la magniloquenza di quegli abiti sembrano gridare “è tutta una facciata, vi stiamo ingannando”. Una grande mascherata carnevalesca volta a coprire lo schifo che si annida in profondità. Quasi assecondassero un’innata vocazione al massacro e all’(auto)annientamento, questi spregevoli esseri si urlano contro, si spingono, si tirano oggetti, fingono di spararsi, mostrando una prevaricazione ed un disprezzo per il prossimo che trova nella regia una sua traslazione visiva: inquadrati ossessivamente dal basso verso l’alto e deformati dai grandangoli, troneggiano imponenti ed intimidatori davanti all’obiettivo.

Schiacciano lo spettatore, costringendolo ad inchinarsi al loro cospetto.
Le relazioni di potere che legano i componenti della corte potrebbero essere rapportate ad un piccolo sistema solare, con la regina-sole a rappresentare il fulcro della narrazione (e della corte), il sacro corpo celeste attorno al quale gravitano le vicende delle due protagoniste-pianeti, in funzione delle quali orbitano i maschi-satelliti. E’ interessante notare come i personaggi maschili, ai quali viene normalmente associato il potere politico, non abbiano alcuno spessore: sono monodimensionali, relegati sullo sfondo della vicenda (come la guerra che stanno combattendo), quasi privati della loro mascolinità (in una breve scena Sarah e la regina, durante un bagno di fanghi, sfottono i maschi di corte facendo loro il verso). Pur essendo ambientato durante il periodo bellico, la scelta di non mostrare alcuna scena di battaglia sembrerebbe una dichiarazione d’intenti: evocata solamente dalle parole degli ufficiali e dei comandanti durante i briefing con la regina, la guerra (nel senso militare del termine, tipicamente maschile) tra Francia ed Inghilterra, funge da pretesto narrativo, un MacGuffin funzionale a far procedere la storia, ma che non ne costituisce il focus narrativo.

Piuttosto, essa è da intendere come il riflesso delle due superpotenze (Abigail e Sarah) che si danno battaglia all’interno della corte, in una prassi che porta in superficie il conflitto che nessuno può vedere, quello, cioè, che viene combattuto non solo nelle buie aule del parlamento (gli intrighi e le macchinazioni che oliano gli ingranaggi del potere politico), ma anche nel letto del nemico (il triangolo amoroso tra le protagoniste). Tutto il film è imperniato su questo fine lavoro di ambivalenze, contrasti e dissonanze visive: il macrocosmo del conflitto franco-inglese contrapposto alla guerra in corso nel microcosmo del palazzo reale; il lusso della vita cortese e la decadenza che si riflette in maniera grottesca sui personaggi («sembrate un tasso», dice Sarah alla regina dopo che questa le chiede come le è venuto il trucco); lo scontro tra Godolphin (marito di Sarah) e il proprietario terriero Harley (alleato politico di Abigail) per l’ottenimento della carica di primo ministro; le stesse protagoniste, presentate sin da subito come iconograficamente opposte: la bionda e la mora; occhi azzurri una, occhi castani l’altra; subdola, cinica e femminile la prima, dominatrice, inflessibile e mascolina la seconda.

Lo scontro che vede le due antagoniste schierate su fronti opposti viene tradotto metaforicamente da una scena estremamente simbolica, quasi didascalica (che, guarda caso, viene ripetuta tre volte): Abigail e Sarah si sfidano al tiro al piccione, tenendo il conto a chi riesce a colpirne di più. Le avversarie si osservano, si studiano, pronte ad organizzare una controffensiva alle mosse del nemico. Abigail perde, ancora troppo debole ed impreparata a fronteggiare un rivale così forte. Sarah la consola ironicamente: «farò di te un’assassina». Abigail le sorride, ma è un ghigno: lo sa bene... La scena si ripete più avanti nella storia, quando l’influenza di Abigail sulla regina, così come il suo rango sociale, si accrescono. Allo stesso modo, questa volta vince la sfida. Il colpo decisivo, quello che ne decreta la vittoria, fa schizzare il sangue dell’animale sulla faccia di Sarah: un inquietante segno premonitore del destino cui la duchessa va incontro.
La scoperta del doppiogioco architettato dalla rivale, in un momento importante della storia (più o meno a metà film), coincide anche con un cambio del registro narrativo tra la prima e la seconda parte: comica e sarcastica la prima, in cui Lanthimos non si risparmia nemmeno velati riferimenti alla sua stessa filmografia (in una scena la regina propone a Sarah di far gareggiare tra loro delle aragoste), cupa e drammatica la seconda, in cui le tensioni esplodono. Gli attori seguono lo stesso principio basato sul contrasto: se l’attuale divismo Hollywoodiano ci ha abituato ad associare la candida semplicità di Emma Stone a ruoli dolci e romantici, stavolta l’attrice presta il volto delicato da bambina innocente ed un’abilità mimetica da camaleonte ad un personaggio astuto ed arrivista; un lupo ancor più subdolo in quanto indossa i panni di un agnellino: quasi un’antitesi del prototipo della “femme fatale”.

Ogni suo movimento, ogni parola è studiata per ingannare chi le sta attorno, in una riflessione meta-cinematografica sull’atto stesso della recitazione, sulla costruzione di un character. Per contrasto, Abigail non è mai truccata, a differenza degli altri personaggi: la sua posizione di serva non glielo consente. Solo nelle battute finali del film, dopo essersi assicurata una posizione di rilievo nella scala gerarchica ed una stabilità economica, comincia a curare in maniera vistosa il suo aspetto, oltre a manifestare una maggiore insolenza: è forse una tragica ironia che questo sia anche il momento in cui la regina comprende la vera indole della nuova favorita, quando ormai la guerra è finita, e i feriti agonizzanti portano addosso i segni della devastazione. Dopo averle dato temporaneo sollievo dal dolore della malattia con un impasto di erbe mediche, Abigail riesce a conquistare le simpatie della regina (che anche nella realtà venne colpita dalla gotta), ed intuendo l’incupimento dei rapporti tra Anna e Sarah approfitta degli impegni istituzionali di quest’ultima, che la costringono a trascurare la regina, per allietare le sue giornate. In una scena la regina le presenta i suoi 17 conigli: si interessa, li saluta chiamandoli per nome (cosa che Sarah si rifiutava di fare), finge (?) di commuoversi quando la regina le rivela il trauma di aver perso 17 figli durante il parto e di come abbia riversato su di loro il suo bisogno di maternità.
L’adulazione e le premure che le riserva spingono la regina a fidarsi di lei, ma i suoi movimenti, la sua stessa andatura, tradiscono una realtà ben più ambigua: cade in continuazione, cammina carponi, si siede per terra; sembra avere l’abitudine di strisciare sul pavimento, come una vipera, e in questo modo rivela in anticipo agli spettatori la sua vera natura (da notare come si presenta per la prima volta a corte).

La regina, d’altro canto, fa discorso a sé: Olivia Colman regala una performance viscerale, da Actors Studio, basata su una maniacale attenzione sulla mimica corporea e facciale. La regina Anna, malata e tremendamente debilitata, viene mostrato gonfia, appesantita, sformata. Costretto in sedia a rotelle o a muoversi in maniera pachidermica con l’aiuto di un bastone, il suo corpo marcisce, come se fosse stato morso da un animale velenoso (curioso che contragga la malattia proprio nel momento in cui Abigail si stabilisce a corte…). Una fragile psiche devastata dalla malattia e dal dolore, che alterna momenti di convivialità e giovialità ad altri di depressione, bulimia e pianto isterico. Non è casuale, bisognosa com’è di sentirsi amata e desiderata, che ricerchi costantemente le attenzioni e l’affetto delle sue spasimanti, una legittimazione delle proprie pulsioni e desideri sessuali, nonostante la sua parziale disabilità (elemento decisamente provocatorio: nel cinema le persone disabili sono quasi sempre asessuate).
L’approfondimento psicologico delle protagoniste, in tal senso, è esemplare: concetti come bene e male vengono completamente annullati; anzi, sono la stessa cosa, ed il regista, evitando la facile dicotomia ed uno svilente manicheismo, evita anche qualsiasi tipo di giudizio morale. La scena finale è esemplificativa: la guerra è finita, le maschere sono ormai cadute e ciò che resta sono due donne. In un silenzio prolungato per minuti, durante il quale non si guardano nemmeno (non ne hanno bisogno), le due inquadrature sui volti si inghiottono, cannibalizzandosi a vicenda in una sovrimpressione che ne genera una terza… in una sequenza da annali.
Caratterizzato da una sconcertante molteplicità di chiavi di lettura, La favorita potrebbe essere interpretato come uno dei trattati più lucidi e distruttivi sul disfacimento di un nucleo “familiare”; come un’allegoria della corruzione spirituale, morale e fisica causata dal potere; e ancora, come un saggio sulla recitazione come mezzo fondante della simulazione: una metafora del cinema stesso come arte della menzogna, dell’illusione. Nel complesso è un dramma universale, tanto più inquietante quando si realizza che, con i dovuti cambiamenti, potrebbe essere ambientato nel presente. E potrebbe essere uno dei film più femministi di sempre. Titoli di coda. Parole bianche su sfondo nero: the Favourite. Ma stavolta l’unica parola visibile è “Favourite”, nella sezione inferiore dell’inquadratura; pochi istanti dopo compaiono contemporaneamente “t” ed “e” ai lati della sezione superiore, e solo alla fine la lettera “h” in mezzo a loro. Il cerchio si chiude.
Buona visione.
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