a cura di Francesco Tognozzi
“Everything is falling apart
And we all have confessions to make
And all the things that you’ve ever loved
Effectively will never be spoken of again”
Solace, Preoccupations - New Material (2018)
#20 Parquet Courts – Wide Awaaaaake!
Il punk è un fuoco che arde molto in fretta e se riesci a costruirci una reputazione sopra, è naturale che tu debba fare i conti con la sua scarsa solidità sul lungo periodo. Ammesso che tu riesca a sopravvivere oltre il secondo album – il che vuol dire essere capace di sfornare cavalli di battaglia uno dopo l’altro e incendiare costantemente le folle nei live – sentirai prima o poi la necessità di rinnovare la tua formula; ma se smussi gli angoli appena più del dovuto, i fan della prima ora chiederanno la tua testa. Questa tipologia di equilibrio particolarmente sottile racconta almeno in parte la parabola dei Parquet Courts, che da un buon quinquennio sono avvezzi a calcare palcoscenici importanti, ma sembrano aver smarrito per strada molto del loro iniziale fascino. La virata che dall’elettrizzante garage di Light Up Gold (2012) ha condotto fino all’attuale indie-pop ad alto tasso di contaminazione, maturata attraverso due LP intermedi non proprio esaltanti, ha convinto meno di quanto Max Savage e compagni si attendessero, nonostante la propensione verso territori finora mai visitati sia testimonianza di un progetto artistico che vuole prendere il largo, anziché appiattirsi. In ogni caso, la buona notizia è che Wide Awaaaaake! diverte più dei suoi predecessori e, salvo due-tre episodi abbastanza superflui, certifica il carattere e l’indomita creatività di una band sulla cui reputazione non c’è mai stato da discutere.
#19 Clearance – At Your Leisure
La galassia indie americana è un’entità talmente sconfinata che è difficile pensare di poterne scorgere i limiti, anche a patto di impegnare la propria intera esistenza sull’argomento. Sbrogliare una tale matassa è un ostacolo invalicabile; meglio ricavarne bocconi in giuste proporzioni da assaporare con la giusta pazienza, come si fa con le more da un rovo. Il sophomore dei Clearance, band di stanza a Chicago, malgrado si proponga di raccogliere il testimone da mostri sacri come Pavement e Built to Spill, non lascia in bocca il gusto pieno e trionfante di un capolavoro di genere. Resta però uno di quegli ascolti che sembrano creati ad hoc per determinate situazioni. E’ perfetto quando, nel tepore crescente delle prime autentiche giornate di primavera, si cerca reiteratamente di spostare la testa per raccogliere tutto il vento che entra dal finestrino dell’auto. Trova utilità in quei momenti agrodolci in cui la tentazione di mettere su qualcosa dei primi R.E.M. è forte, ma affrontare lo spesso dito di polvere che ricopre Murmur è una prospettiva che scoraggia. E’ in grado di aprire squarci di luce nella routine, di fornire incoraggiamento come una sincera pacca sulla spalla, di garantire una cospicua dispensa di colori per le giornate più pallide.
#18 Gwenno – Le Kov
L’egemonia del British sound in ambito moderno è innegabile: così come accade tradizionalmente per molti altri settori, anche in quello della pop music l’Inghilterra (ma è più che mai opportuno dire la Gran Bretagna) recita dai Beatles in poi un fondamentale ruolo di avamposto culturale. E’ il laboratorio dove si definiscono gli stili, la passerella su cui si lanciano le mode, il faro che indica la rotta da seguire. Ciò che solitamente sfugge ad un’occhiata superficiale, è il brulicare di endemismi che giacciono disseminati su ogni centimetro del regno di Elisabetta; scrigni di memoria popolare che si fonde con la mitologia celtica, e di idiomi locali (quasi) perduti. Gwenno Saunders – che all’anglocentrismo deve molto, essendo stata parte integrante dell’epopea delle Pipettes – pare appunto aver scelto la riproposizione di peculiari eredità del folklore britannico come abito per la sua carriera solista. Mentre l’opera prima Y Dydd Olaf (2014) aveva rappresentato un omaggio al sangue gallese della madre, Le Kov punta il microfono verso la Cornovaglia, terra di radici paterne. E non si appaga davanti all’arido primato di unico album interamente scritto ed interpretato in cornico, ma finisce per incarnare l’apoteosi di una lingua che si sposa con le note musicali per naturale vocazione. Merito anche di uno psych pop denso e suggestivo, un po’ Broadcast un po’ Melody’s Echo Chamber, che riesce agevolmente a farsi perdonare alcune lungaggini e addolcisce ogni critica con una carezza.
#17 Ty Segall & White Fence – Joy
Perché il connubio artistico tra due delle più spiccate individualità dell’indie rock contemporaneo possa funzionare per l’intera durata di un long-playing, servono una serie di congiunzioni astrali su cui non c’è modo di disquisire in questa sede. Le probabilità che il suddetto evento addirittura si ripeta, a distanza di anni e per di più in una fase di relativa stagna da parte di entrambe – parlando in termini qualitativi, vista l’iper-produttività del sempre più instancabile Ty Segall – sono praticamente pari a zero. Eppure, come nel più paradossale dei copioni, le due facce della California sembrano esprimersi al massimo proprio ogni qual volta decidano di unire le forze. Eccoli di nuovo lì, fianco a fianco (quantomeno in cabina di registrazione), il biondo e irriverente rocker e l’emaciato istrione dall’aria tutta britannica, intenti nel replicare quel piccolo miracolo generazionale che era stato Hair (2012). Restare su quei livelli è impossibile, ma la strana coppia regala ancora una volta sprazzi di genialità dispersi in una mischia di citazioni, diaboliche inversioni a U in corsa e brani appena abbozzati, in un clima di puro divertissement. E la chiosa acustica con ‘My Friend’, scarna, struggente e assolutamente fuori contesto, vale da sola il prezzo del biglietto.
#16 Sam Evian – You, Forever
Su come siano cambiate, negli ultimi vent’anni, le modalità di divulgazione e di fruizione della musica – e di conseguenza il sacrale rapporto tra pubblico e artista – si potrebbero riempire le pagine di un trattato di sociologia in più tomi. Internet è un’enorme vasca di pescecani che passano intere giornate a litigare per un pugno di prelibatezze, dimenticando sempre qualche boccone pregiato nella discarica galleggiante prodotta dal loro famelico dibattersi. Emergere da acque così torbide non è facile nemmeno per chi può fregiarsi di un nome di battaglia cazzuto e altisonante, figurarsi per un chitarrista e songwriter che dà pieno sfoggio del suo gusto classico dietro al pacifico pseudonimo di Sam Evian. La formula vincente dell’ex membro dei Celestial Shore non contempla soluzioni sperimentali, né si distingue per spirito innovativo; stupisce piuttosto per la sua capacità di arrivare dritta al nucleo emotivo di chi ascolta, pur facendo della semplicità la sua forza trainante. E’ uno psych-pop leggero e primaverile quello di You, Forever, a tratti fin troppo educato, ma coerentemente organizzato in una playlist che, pur mostrandosi vulnerabile, risplende di acuti in grado di far rivivere l’incanto del new acoustic movement britannico e delle meraviglie dimenticate di Clientele e I Am Kloot.
#15 Loma – Loma
Quando un volto nuovo si affaccia sulla scena musicale accompagnato da un inequivocabile senso di familiarità, le chances che si tratti in realtà di una vecchia conoscenza sono molto alte. Scioglimenti, rimpasti e persino beffarde variazioni anagrafiche, sono all’ordine del giorno. E se in buona parte dei casi la personalità che si cela dietro un monicker è troppo eclatante per non essere lestamente smascherata, talvolta bisogna ricorrere alla lettura delle cronache per poter ricostruire i fatti. Capita così di scoprire che i Loma altro non sono che il progetto nato sulle ceneri dei Cross Record, duo post-rock formato dai coniugi (ad oggi ex) Emily Cross e Dan Duszynski ed estintosi nell’arco di quattro album senza lasciare eredità di particolare rilievo. L’omonimo debutto a denominazione inedita provvede da solo a lavare l’onta, presentandosi come il frutto, misterioso ed eclettico, di una sostanziale rigenerazione. Sullo sfondo impregnato di apocalyptic folk, le increspature sono la parte migliore: l’apertura dreamy e svagata di ‘Who Is Speaking’, la dichiarazione d’amore ai Portishead di ‘White Glass’, l’irresistibile electro-pop claustrofobico di ‘Relay Runner’. Inutile tentare di sfuggire ad un oggetto così magnetico, magari arduo da affrontare nelle fasi iniziali, ma che poco a poco si disvela per quello che è un gioiello dark dai riflessi del tutto singolari.
#14 Django Django – Marble Skies
Maturare significa, anzitutto, sviluppare anticorpi contro lo scorrere del tempo. Non si è giovani in eterno e questo comporta la necessità di prendere delle contromisure, per non rischiare di incappare in una stagnante sindrome di Peter Pan. Il primo, omonimo album dei Django Django (2012), caleidoscopio straripante di giocosi intarsi sonori, resterà un punto di riferimento assoluto in mezzo al calderone pop dell’attuale decennio. Ma anche un monumento impensabile da replicare; non tanto per l’intrinseca portata, quanto per la sua natura maledettamente concreta però al tempo stesso effimera e sfuggente. Ampliare i propri orizzonti verso un sound più consapevole, e quindi verso l’età adulta, è stata l’unica pista da poter percorrere per continuare a coltivare ambizioni degne dell’orgoglio indie di Scozia. E una volta scoperto, con Born Under Saturn (2015), che prendersi fin troppo sul serio può generare dei passi falsi, tre ulteriori anni di gestazione hanno portato alla luce Marble Skies. Con il quale la band di David Maclean spiattella al mondo intero le passioni musicali su cui si è forgiata, dai Byrds ai Depeche Mode, passando per Devo e David Bowie, ma senza mai tradire il proprio, personalissimo fil rouge. Echi psichedelici, gelidi richiami eighties e le solite, immancabili galoppate in salsa western, a rincorrersi vorticosamente fino a partorire una scultura polimorfa, che si regge bene in piedi nonostante l’aspetto surreale.
#13 Lebanon Hanover – Let Them Be Alien
La stagione del fastoso ritorno in voga di new wave e annessi – che ha offerto anche sporadiche soddisfazioni fra migliaia di copie carbone – si è ormai esaurita da un pezzo, sotto il ghigno impietoso di chi fin da subito l’aveva osteggiata. Ma i Lebanon Hanover, noncuranti delle mode e spinti da una fede incondizionata, proseguono a gran ritmo, da poco più di un lustro, nella loro pedissequa opera di recupero delle sonorità dominanti nel lato oscuro degli anni ’80. Non limitandosi, come molti fanno, a cogliere sillabici spunti da quella precisa fetta di patrimonio collettivo, ma dando luogo ad un personale dark revival in piena regola. Il duo anglo-tedesco, in make-up rigorosamente nero, si muove con destrezza nell’incedere sincopato della drum-machine, tra macabri giri di basso e synth di glaciale impenetrabilità. E per irrobustire il senso di déjà-vu, non rinuncia a scaltri espedienti della tradizione gothic più integralista: il registro vocale impostato sulla lunghezza d’onda dei Sisters of Mercy, il sax alla Tuxedomoon di ‘Gravity Sucks’, le marcette elettrificate di ‘Ebenholz’ e ‘True Romantics’ che aprono un link diretto coi Depeche Mode di Black Celebration. Non c’è un palmo di questo territorio che sia rimasto inesplorato, e Let Them Be Alien esiste nella piena consapevolezza di non aver inventato alcunché. Ciò non impedisce a questo diamante di brillare nelle tenebre, col fascino che solo la seconda potenza di un anacronismo può concedersi.
#12 Ava Luna – Moon 2
Brooklyn, NYC è stata, negli ultimi quindici-venti anni, il teatro del maggior fermento di matrice indie a livello planetario: dagli albori del nuovo millennio, fino ad arrivare ai giorni nostri, uno sciame interminabile di bands si è riversato fuori dai garage della città nella Città, per andarsi a conquistare la propria nicchia di notorietà dentro e fuori dai confini USA. Fare oggi una conta dei sopravvissuti di quella progenie che annoverava, tra gli altri, membri del calibro di LCD Soundsystem, Dirty Projectors, Grizzly Bear e TV on the Radio, può rivelarsi in un certo senso un’operazione impietosa. Ma accanto a coloro che sono arrivati qui con le ossa rotte o quanto meno con una consistente quota di capelli bianchi, difficile da dissimulare, c’è chi al contrario dimostra di essere alive and kicking. E’ il caso degli Ava Luna, che in piena maturità e forti di un pedigree composto da sette album incisi nella penombra degli ambienti dance punk, con Moon 2 consegnano alla storia la loro prova più lucida ed ispirata. Pur non rinunciando a sventolare con fierezza le proprie radici funky e soul, Carlos Hernandez e soci alzano l’asticella in termini di ricorso all’elettronica e danno vita ad un variopinto sound ad effetto, che appare la perfetta compenetrazione tra new wave e black music. E in cui, fatta eccezione per alcuni interludi distensivi, ogni dettaglio viene sacrificato sull’altare del ritmo.
#11 Parcels – Parcels
Se hai poco più di vent’anni, un primo disco ancora da pubblicare e – ladies and gentlemen – i Daft Punk si sono già scomodati per te, grosso modo devi essere un rivoluzionario. O ti converrà diventarlo al più presto, perché trovarsi un feticcio di tali proporzioni in cabina di regia comporta enormi vantaggi e altrettanto enormi responsabilità. Uno tsunami di saggezza e know-how ha investito gli australiani Parcels – un coro di falsetti piovuto sul pianeta fuori tempo massimo – quando le orecchie dei due guru con la faccia da robot si sono posate sui loro tunes, docili e patinati, che si appiccicano in testa come melassa. L’esito dell’assurdo rendez-vous è un album che riunisce tanti fili conduttori, tutti saldamente ancorati ad un passato fatto di giacche sgargianti e pantaloni a zampa, in un tessuto synth-funk di nuova consistenza e rifinito in maniera ineccepibile. La disco music anni ’70, l’ondata new romantic, i Bee Gees, i Duran Duran, e praticamente ogni singolo frammento di ciò che oggi si possa considerare datato, torna sotto forma di una ventata di freschezza a distanza di due generazioni. Il miracolo di questi ragazzini, acquisito in combutta con dei protettori d’eccezione, è quello di aver saputo coniugare le proprie malcelate passioni con il gusto contemporaneo, risvegliando in ciascuno di noi amori di cui a volte, scioccamente, ci vergogniamo un po’. Che per un lunghissimo attimo si erano assopiti.
#10 Goat Girl – Goat Girl
Ha ancora senso, alla vigilia del cinquantesimo compleanno di Woodstock, continuare a chiedersi se il rock sia da dichiarare deceduto o meno? Per quanto, tecnicamente, il delitto si sia consumato da tempo immemore, non è mai semplice mettere una pietra tombale su faccende tanto delicate. Quello che si può affermare con relativa certezza, persino nel corto circuito di un presente in cui tutto sembra essere divenuto crossover, è che il rock inteso come riproducibile, canonica combinazione dei quattro elementi fondanti voce-chitarra-basso-batteria, è destinato ad una longevità che forse nessuno in origine avrebbe osato profetizzare. E anche le nuove leve di un sistema che si è quasi completamente saturato, riescono in situazioni specifiche a produrre risultati sbalorditivi – al netto di veniali peccati d’immaturità. Nell’anno dei kolossal discografici al femminile e dell’apertura verso la logica delle quote rosa nei festival internazionali, alle londinesi Goat Girl spetta una doverosa menzione d’onore. Il loro debutto è come una straripante palette, mediante la quale è possibile attingere alle svariate connotazioni che il più abusato dei (macro)generi è capace di assumere, dal post punk all’indie di stampo nineties, dal surf al power pop, fino al grunge, al folk elettrico e allo shoegaze. Ma è soprattutto la prova di quanto siano immediatezza e genuinità, più di ogni altro attributo, a custodire la fiamma sacra alle porte del tempio.
#9 Leon Vynehall – Nothing Is Still
L’espressione concept album è boriosa fin dal suo spelling. Richiama subito alla mente le pose e le pretese di una certa preistoria del rock che in pochi oggigiorno rimpiangono; prende le distanze da chi si accinge all’ascolto, gli si rivolge con quel tono da raffinata intuizione artistica ad uso e consumo di una ristretta élite intellettuale. Il problema, con le etichette, sta sempre nel rischio di dar loro un eccessivo peso specifico. Appena varcate le soglie del fantastico universo di Nothing Is Still, ogni alito di pregiudizio si dissipa davanti al potere evocativo di una storia intima e familiare, raccontata con mezzi assolutamente non convenzionali. Un’alienante e convulsa New York di metà ‘900 fa da cornice alle peripezie del protagonista, che Vynehall snocciola lungo un intenso romanzo elettronico suddiviso in capitoli. Il dj e producer inglese, superate quasi del tutto le proprie tentazioni dance, realizza un sublime collage di minimalismo ambient, jazz, industrial, deep house e musica classica, in cui gli elementi si incastonano l’uno con l’altro a formare le parole mancanti di una narrazione vivida e sorprendentemente carica di dettagli. Bagliori d’avanguardia, che potrebbero sembrare calzanti per la cerebrale fantascienza di Philip Dick, ma trovano tutt’altra collocazione nell’estro di un dimesso ed evasivo pioniere della nostra generazione: sono la trasposizione dalla carta fotografica al vinile di istantanee stropicciate e ingiallite sui bordi, che testimoniano aneddoti di comune straordinarietà.
Una qualità dei Preccupations su cui non si può certo dibattere, è l’assoluta dedizione nei confronti del lavoro; il titolo rigorosamente minimale di questo album (il terzo, di fatto, per la band di Calgary) ne è la più banale ed evidente delle prove. Mentre altri portano avanti gravidanze che durano interi lustri, o si disperdono nelle nebbie di non meglio precisati momenti sabbatici, loro sfornano dischi in serie e li esportano davanti alle platee di mezzo mondo con ammirevole solerzia, per nulla tramortiti da un cambio di ragione sociale in corsa che avrebbe potuto destabilizzare chiunque. Le spoglie del crudo, minaccioso esordio di una band di nome Viet Cong – bandita per sempre dagli annali a causa della miope ipocrisia di alcuni – riprendono vita con immutato vigore ogni qual volta i quattro canadesi decidano di incrociare gli strumenti, come armi in battaglia. E un desolato scenario di sangue e polvere si manifesta di fronte agli occhi. Selvagge, assordanti sevizie sui tamburi, synth funerei memori dei Cure di Pornography, spigolose linee di basso, atmosfere torbide che si susseguono fino a sfociare nella tempesta di droni e refrain della conclusiva ‘Compliance’. La voce roca e teatrale di Matt Flegel, con quel tocco glam alla Psychedelic Furs, risuona come un sarcastico altoparlante sulle ambientazioni di New Material, popolate da strascichi di post punk visionario e destrutturato: è l’inquietante rievocazione di una stirpe dall’anima nera.
#7 Yves Tumor – Safe in the Hands of Love
A dispetto della giovane età, Sean Bowie è un tipo che conosce bene i trucchi del mestiere per amplificare il proprio ego. Preso atto di quanto fosse sconsigliabile l’utilizzo pubblico di un nome di battesimo così ingombrante (e fuorviante), si è dapprima scelto un monicker cinico e velenoso al punto giusto, poi ha sigillato ermeticamente la sua identità in una busta, al sicuro dagli occhi dei media, e vestito i panni di Mr. Hyde. Di simili escamotages se ne contano a dozzine in ambito di storia recente, da Burial in giù: impersonare l’artefatto può risultare controproducente, se il tutto non è supportato da una buona dose di estro innovativo, ma si dimostra spesso un’astuta soluzione per costruirsi un succoso hype di avviamento. Da lì in poi, bisogna comunque mettercela tutta per scalare le gerarchie a partire dallo scantinato di bandcamp. Se Yves Tumor non si è sgretolato finora, ma anzi ha catalizzato su di sé un crescente interesse, deve ringraziare il suo genio compositivo prima ancora della sua disturbante caricatura. Safe in the Hands of Love è il terreno di conquista di un invasato giocoliere del suono, abbastanza spregiudicato da impastare art rock, noise, trip-hop, drone e future r’n’b in una miscela ipnagogica che non lascia scampo. Ci vogliono ore di digestione e uno stomaco ben allenato, ma questo cult contemporaneo è vitamina pregiata nell’eterna lotta alla mediocrità dei cibi precotti.
#6 The Field – Infinite Moment
Un treno fischia per annunciare l’imminente partenza. Una volta completate le manovre preliminari, chiude le porte e inizia lentamente la sua marcia sulle rotaie, guadagnando velocità non appena il profilo della stazione è scomparso dall’orizzonte alle sue spalle, inghiottito dalla nebbia. Il tragitto si prospetta lungo ed estenuante, la destinazione ignota, non sono previste fermate. Nemmeno il tempo di prendere posto in una delle carrozze, che il convoglio sta già sfrecciando imperturbabile nella cupa desolazione di una landa inospitale. Il vetro si appanna quando la faccia vi si avvicina incuriosita per scrutare il paesaggio poco confortante, prima che una manica della giacca provveda opportunamente a rimuovere la condensa con una sommaria strofinata. Ai lati del binario la vegetazione bruciata dal gelo, unico residuo di vita latente, si confonde con il plumbeo torpore che la sovrasta, e gli occhi si perdono nel monotono ripetersi della medesima immagine. Tanto da non accorgersi che, nel frattempo, il treno è già scomparso nel buio. Soffermarsi a sviscerare lo strabiliante curriculum di Axel Willner è un esercizio di sterile giornalismo. La sua arte è astratta e ineffabile a tal punto da non meritare una comune disamina, e sprecarsi in digressioni finalizzate a definirla trance piuttosto che minimal techno, è un atto masturbatorio che svilisce la sua essenza. Infinite Moment è, al pari dei capolavori che l’hanno preceduto, semplicemente una tela che ciascuno può dipingere con la propria fantasia. The Field non produce musica, ma solo suggestione.
#5 Jonathan Bree – Sleepwalking
Poco importa quale sia il numero di vite toccato in sorte a Jonathan Bree, ancor meno il fatto che in una di esse abbia perso contatto fino a voler scomparire. Contano solo i gesti: come ad esempio indossare una maschera, nel senso letterale dell’espressione, e decidere di essere un’icona che al decennio in corso mancava. La trasfigurazione del crooner venuto dall’altro capo del globo terrestre, che si compie puntuale al ventesimo anno di onorata (e tormentata) carriera, risparmia solo un caschetto di capelli neri come il petrolio, tra tutti i cimeli del passato. Per il resto, siamo di fronte a uno scisma in piena regola, in cui l’occultamento dell’immagine della persona fa da contraltare all’esaltazione delle doti dell’artista. Perché Sleepwalking è un immenso contenitore di rivalse, nei confronti di un percorso mai veramente decollato, di un pubblico che ostinatamente ha voltato lo sguardo dalla parte opposta mentre si parlava di lui. I tempi sono cambiati, e Bree riesce a coglierne l’essenza prima di chiunque altro col suo mutevole chamber pop ad alto tasso scenografico, che attinge a piene mani da un repertorio classico ma parla la lingua dei millennials. E la parla con un timbro caldo e confidenziale, adagiato sul comodo divano di un salotto ovattato, dalle pareti a tinte pastello. Ne scaturiscono undici canzoni degne di chiamarsi tali, miracolosamente azzeccate dalla prima all’ultima, che sembrano comporre la trama di un film. L’occhio di bue, stavolta, si è acceso sull’uomo con la maschera.
#4 Hookworms – Microshift
L’ascesa, il tripudio e la disgregazione. Microshift vede la luce ai primi di febbraio, tra le maggiori attenzioni della critica specializzata che, riconoscendone trasversalmente il valore, sancisce l’ingresso del quintetto di Leeds nel novero dei baronetti dell’indie-rock britannico. La svolta popular aiuta in tal senso: riposti in archivio i sermoni psichedelici dei primi due LP, la versione odierna degli Hookworms, ammiccante, modaiola, ma non per questo frivola, convince e appassiona nella sua minuziosa ricerca estetica. Il ricorso al sintetizzatore non è solamente sdoganato, bensì diventa il perno attorno a cui ogni melodia acquista costrutto; l’interpretazione canora di Matt Johnson, carismatica ai limiti del narcisismo, corrobora la sensazione di trovarsi davanti ad una grande band inglese sulle orme degli Horrors. Tra inattese parentesi dream pop e architetture di retaggio kraut che rinvigoriscono un canovaccio ben consolidato, viene spontaneamente da chiedersi se il disco, seppure splendido nella sua compiutezza, altro non sia che un mero lavoro di transizione. La risposta probabilmente non la conosceremo mai. Gli Hookworms hanno annunciato il proprio scioglimento alla vigilia della notte di Halloween, a seguito del caos generatosi dalla pubblicazione di notizie scioccanti (ma tutto fuorché confermate) riguardo a vicissitudini private del frontman MJ. Trick or treat? Stavolta non c’è scelta: meglio mandar giù Microshift insieme all’accettazione di un vigliacco scherzo del destino, per stemperare l’amarezza di un bellissimo racconto che si è interrotto troppo bruscamente.
#3 Palm – Rock Island
C’è chi fa musica per guadagnarsi da vivere. E c’è chi fa musica per poi accartocciarla. Spremerla, violentarla tra le mani fino a farle guadagnare l’aspetto di una massa informe, con cui ogni tentativo di instaurare un rapporto di familiarità si perde, inesorabilmente, in un flusso di suoni ridondanti che non hanno un inizio né una fine ben definiti. Persino quando è lo spirito di Brian Wilson a sembrare sul punto di materializzarsi in carne ed ossa, i Palm hanno l’ardire di giocare a freccette usando nientemeno che la sua sagoma come bersaglio, ed è così che la pop music si trasforma in un incubo. Melodie cristalline si divincolano in un groviglio di corde sgangherate e percussioni impazzite; quando finalmente sembrano aver preso il largo verso la conquista di uno spiraglio di luce, ecco che finiscono per deragliare in un’irrazionale dimensione di loop ossessivi senza via d’uscita. Rock Island è un approdo malsicuro per chi sia alla ricerca di comfort uditivo, un paranoico luna park di giostre deturpate e pericolanti. E oltre ad essere tutto ciò, rappresenta, nell’ordine: un fulgido esempio del risveglio math/progressive che la nostra epoca sta vivendo; uno dei dischi più pregevoli dell’annata sul piano tecnico, con oscar per la sezione ritmica; un’operazione di appeal commerciale pericolosamente scarso. In effetti, questa musica è assai poco adatta per guadagnarsi da vivere. Ma come sophomore, per i quattro di Philadelphia davvero non c’è male.
#2 Connan Mockasin – Jassbusters
Alcuni devono fare molto chiasso o ricorrere agli effetti speciali per farsi sentire, ma non certo quella bizzarra creatura che risponde al nome (fittizio) di Connan Mockasin. Non ha all’apparenza sesso né età, è schivo e inafferrabile, ma privo della patina che normalmente ricopre chi si è costruito un alter ego a tavolino per farsi della pubblicità. Si esprime in un linguaggio allegorico che solo egli stesso è in grado di decifrare, eppure, ogni volta che la testina si posa su un suo disco, qualcosa nel perpetuo fluire degli eventi s’interrompe e anche gli oggetti intorno sembrano voltarsi ad ascoltare. Sarà la curiosità destata dalla sua mutevole voce aliena, dal suo modo di flirtare sensualmente con le corde della chitarra, o magari dai testi stralunati che fanno da sceneggiatura alla sua psichedelia suadente e introspettiva. C’è comunque qualcosa che sfugge sempre, nei perché dell’attrazione che il biondissimo outsider esercita su di sé; qualcosa che perdura immutato negli anni e resiste all’impatto di ogni cambiamento. L’art rock lisergico e dissociato di Forever Dolphin Love (2011) ha ceduto gradualmente il passo ad un soul bianco a bassa fedeltà, arricchito delle fascinazioni orientali di cui Mockasin è caduto preda sia a livello sentimentale che artistico, ma il suo marchio di fabbrica è intatto e Jassbusters – estrema sintesi di un vissuto sui generis – suona come un dolce risveglio. E’ il fedele ritratto, intimo e sincero, di una creatura che a scapito delle proprie origini sta piano piano assumendo sembianze umane.
#1 The Soft Moon – Criminal
Il tempo della confessione, prima o poi, arriva per tutti. Sia esso un gesto spontaneo o estorto con la forza, legato ad esigenze spirituali o a necessità pratiche, si tratta della più devastante arma dialettica in possesso di ognuno, nel caso si renda indispensabile ripristinare il rapporto con una coscienza inquinata. Che Luis Vasquez fosse in procinto di esplodere lo si era capito: impossibile giustificare una serie di album fatti di geniali intuizioni, ma sempre troppo compassati nei toni, davanti a esibizioni dal vivo pronte sistematicamente a sfociare in brutali show di tracotante furia espressionista. Forse però non lo si credeva tanto colmo da voler traslare in studio, una volta per tutte, la sua solida esperienza di animale da palco. Sepolta dal ghiaccio la pista che il minimalismo post punk dei primordi aveva battuto, Criminal sprofonda in un orrido crepaccio di darkwave industriale privo di appigli, dove silenzi ingombranti come macigni vengono rotti da violente deflagrazioni che finiscono per provocare il collasso delle pareti. In caduta libera verso l’abisso, il folletto californiano sceglie di mettersi definitivamente a nudo, intonando attraverso un filtro disumanizzante il suo catartico grido di liberazione; l’assordante rumore di fondo prodotto dal feroce martirio delle percussioni, e dalle basslines che escono dall’ampli come bordate, non è sufficiente per coprire la potenza di una tale ammissione di colpevolezza. ‘This head is a problem / You’re the ghost of my problem’. Non ci si dovrebbe mai fidare di chi ha giocato fin dall’inizio a mischiare le carte. The Soft Moon è lo stucchevole nickname che un individuo subdolo e senza scrupoli va usando da anni per coprire le sue nefandezze sonore. Un criminale sotto mentite spoglie, che si diverte a ridurre lo spazio tra la vita e la morte al sottile spessore di un vinile.
Comments