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Doppio Gioco - Preoccupations live Covo Club, Bologna, 9.2.2019

Immagine del redattore: Mind OutMind Out

a cura di Francesco Tognozzi. Fotografie di Isabella Gorgoni Gufoni.

 

C’è un rinnovato fermento nel panorama musicale indipendente, dovuto solo in parte all’evidenza – ormai quasi trita – che i suoi stessi confini si stanno progressivamente liquefacendo. Quello che sfugge anche all’occhio del più meticoloso censore di materiale discografico, risulta evidente a chiunque decida di varcare la soglia di casa nell’intento di esplorare le svariate, o meglio illimitate, possibilità messe a disposizione da chi lavora con costanza per garantire esibizioni dal vivo di qualità. Le gerarchie dei festival internazionali di rango consolidato cambiano di anno in anno, sia a livello di organizzazione interna, sia per quel che riguarda la percezione che il pubblico ha di essi; intere masse di persone fluiscono tra un Paese e l’altro alla ricerca quasi ossessiva del miglior evento disponibile sul mercato, in una sorta di transumanza dell’intrattenimento post-Schengen, nel solco tracciato da coloro che fino a qualche attimo fa erano hipsters e oggi sono già stempiati avventori in permesso tra un cambio del pannolino e quello successivo. In questo sistema di proficua concorrenza globalizzata, l’Italia non fa eccezione, pur nel suo perenne, folkloristico stridere di cultura alta e pochezza nazionalpopolare. Qui, accanto allo sfacciato ma indiscutibile appeal dei nuovi, chiacchierati raduni dell’estate peninsulare in salsa indie – che si chiamano Ypsigrock, Beaches Brew o Todays, giusto per citare i più solidi – resistono indenni ai segni del tempo autentiche roccaforti della musica live che non demordono nella volontà di animare le notti invernali, anche quando queste sono lunghe e vigliaccamente fredde. In tal senso, il Covo Club di Bologna, è come la maggior attrazione monumentale di quella che a pieno titolo si può definire la capitale dell’alternative-rock nostrano. Nonostante il locale sia tra quelli che ha tenuto botta anche in certe annate complessivamente incolori, il programma d’inizio 2019 si disvela ricco e sostanzioso come non era neppure lecito aspettarsi: Toy, Oneida, Cloud Nothings, Trail of Dead sono alcuni tra i nomi che popolano il calendario stagionale di una realtà che non sembra avvertire il peso delle stagioni stesse, ed è abbastanza ambiziosa da fregiarsi del suo personale festival indoor in formato bonsai. Sono i canadesi Preoccupations, con il loro viscerale post punk ad alta tensione, ad occupare la casella più ingombrante della seconda (e conclusiva) serata dell’Inverno Fest #4.


We’ve built the buildings and led them to break

Tell me, tell me, tell her too, but tell it straight

What is the difference between love and hate?

La porta a vetro si apre, alle spalle il rigore dell’inverno emiliano, davanti un coagulo di suoni, calore e luci che mi accoglie in un ossario le cui austere pareti trasudano controcultura. Un cosmo di galassie che scintillano, frammiste a pianeti di un blu rassicurante, fa da cornice all’anticamera del labirinto. In piedi, di fronte ad un primo stage improvvisato a terra per l’occasione, consumo l’acclimatamento necessario con gli occhi puntati sul soffitto, mentre la voce grintosa e passionale di Angel Olsen si diffonde dagli altoparlanti fino a raggiungere il meato uditivo. Una mossa d’istinto, dettata dal richiamo della sirena, e sono già inconsapevolmente altrove. Sorprendo me stesso a scandagliare le zone morte di una stanza in cui ogni centimetro incute rispetto. Sul bancone tinto di nero, le incrostazioni di birra ancora fresche luccicano sotto il pacato roteare delle strobosfere. Intorno, facce che ho bene in testa, facce che ho già visto da qualche parte, facce di sconosciuti. A dominare dall’alto il vano adiacente, facce dei Clash, che scorgo attraverso una finestra vuota, e mi chiedo come possano avere la stessa espressione strafottente in tutte le dannate fotografie. La domanda, fine a sé stessa, si dissolve non appena altri suoni mi spingono a procedere oltre.


Our particles collide and drown

By candlelight

Ai fiorentini Go!Zilla spetta il non banale compito di traghettare il pubblico verso il main act, in quella che al Covo ha tutta l’aria di essere una notte non troppo ordinaria: poco dopo le 23, comincia a trapelare la notizia che la venue sta saturando la sua capacità dichiarata. Chi è abituato a frequentare questo genere di nicchie sotterranee, nel Belpaese, sa bene quanto il sold-out sia un’ipotesi da non prendere mai seriamente in considerazione. Eppure, ad un’occhiata sommaria, la sala principale appare colma almeno per metà quando la band toscana attacca il secondo pezzo della setlist; oltre alle figure incuriosite che stazionano nei pressi del palco, vi sono molte altre persone disseminate nel resto del locale che presto si riverseranno nel suo punto caldo. L’hard rock spudoratamente lisergico che erutta dalle casse invoglia i presenti a stabilire un contatto più ravvicinato con i suoi interpreti, per divorare un buffet d’antipasto che si conferma succulento fino all’ultima portata.

I Go!Zilla dispensano per oltre mezz’ora lezioni di personalità e maestria nel gestire un intero repertorio di suoni che sono appannaggio della tradizione West Coast americana dai fine Sessanta in poi; ma non è un caso – nell’epoca in cui internet ha appena fatto saltare il banco delle geografie musicali – che certi loro afflati cosmici suggeriscano piuttosto un parallelismo con i cileni, attualissimi Follakzoid. Il filo conduttore è comunque rappresentato da un garage che si abbandona con devozione alla psichedelia ogni qual volta riesca a trovare un pertugio per divincolarsi dalle metriche, un po’ Growlers nelle parentesi di maggiore innocuità, molto più Black Angels quando il basso inizia a ruggire. Ed è soddisfazione, ciò che si prova nell’assistere ad un concerto d’apertura tutto di marca italiana e capace di innalzare così vertiginosamente la temperatura all’interno della folla. Nella notte della finale di Sanremo, il tripudio di orgoglio autoctono che va in scena al Covo Club è roba da far rivoltare i morti viventi sulle loro poltroncine numerate.


Information overdose

Looking for antidotes

Uneven ratios

Under a microscope



Percorro il cunicolo a passo svelto, attratto dalle vibrazioni di una chitarra elettrica il cui timbro familiare cavalca onde sonore che mi arrivano distorte. Tanto basta per farmi anticipare il movimento della massa, che per ora sembra non volersi distogliere dal suo pascolo sconclusionato. Mi destreggio come un’ombra sul muro, sopra la pedana che conduce al collo di bottiglia, così da eludere il piccolo ingorgo che rallenta l’accesso al tunnel terminale. Eccomi di nuovo in questo vicolo cieco, anfiteatro di reminiscenze che si sgretolano nel brusìo di fondo. Un boato frena le parole sul nascere in ciascuna delle bocche semiaperte. Surfisti narcotizzati si impossessano dello scarno proscenio e costringono lo sguardo a seguire le loro evoluzioni, mentre il mare assassino fa sobbalzare paurosamente la tavola. Raffiche di vento caldo, un cielo nero come lo spazio infinto. E’ questa la California, se la osservi dal Ponte Vecchio.


Maybe it’s too late, but it’s much too soon

It isn’t something that’s safe to assume

And then anyone can disappear in the storm

Lo spezzone di serata funestato dall’incandescente esibizione dei Go!Zilla si dilata in un trip conclusivo di estasi e sudore, scandito da un susseguirsi di droni che investono la sala per tutta la sua lunghezza. L’ultimo di essi sfocia in un applauso particolarmente sentito da parte della platea, che nel frattempo ha assunto una notevole consistenza anche in virtù dell’avvicinarsi della mezzanotte fatidica. Dopo aver riscosso il salario minimo per l’alto livello di entertainment offerto, i componenti della band salutano per poi sparpagliarsi tra gli avventori, in un’adorabile anomalia del club bolognese. All’attesa dello show di cartello dovrebbe accompagnarsi, secondo la prassi, un fisiologico svuotamento per lo meno nelle retrovie; questo si verifica solo in parte, dal momento che i Preoccupations si mostrano al pubblico nel giro di pochi minuti, nella stringente esigenza di svolgere un soundcheck che si rivelerà più arduo del previsto. Il fitto dialogo a distanza tra Matt Flegel e il tecnico dietro la consolle, da cui trapela tutto il sense of humor del cantante e bassista, nervoso esattamente come la sua musica, è una delle diapositive da stampare della serata. Negli attimi che precedono il concerto, l’unica certezza sembra essere rappresentata dalla setlist in programma: la stessa che è stata riproposta fedelmente in ogni singola data del tour europeo, a partire da quella del 25 gennaio a Lisbona. Lo scendere del quartetto dal palco – salvo poi risalirvi quasi immediatamente – sa molto di formalità, arrivati a questo punto, perché i motori sono caldi e forse fin troppo.

Lo schianto che Mike Wallace assesta sul ride della sua batteria apre le danze sul tema di Newspaper Spoons, come da copione, ma la reazione della subdola architettura acustica del Covo non è la migliore che ci si possa attendere. Il volume impressionante del basso, in combutta col massacro percussivo che sarà la chiave di lettura dell’intero show, calpesta quasi completamente la linea melodica (già di per sé molto asciutta) e provoca un fastidioso rimbombo che logora le pareti dello stanzone lungo e sottile. Le cose non ingranano, sotto l’aspetto tecnico, nemmeno quando Scott Munro tenta di sfoderare il riff velenoso di Continental Shelf, che rimane miseramente invischiato in una melma di rumore anziché librarsi nell’aria come dovrebbe. Il pogo che si scatena nelle prime file, doppiamente irrazionale davanti a una band di questo genere, non si cura di ciò com’è logico che sia; altrove regna perplessità per la resa in diretta di quello che fu un inno dei Viet Cong, ridotto dalle circostanze ad un cumulo indecifrabile di macerie. Poi, quando il pezzo compie il giro di boa, appare all’improvviso nitida la presenza della chitarra solista: uno spettro sul set sembra aver inserito il jack sbadatamente dimenticato accanto all’amplificatore. Il boato adesso è assordante, ma è da qui a seguire che lo spettacolo acquista il suo senso.


Don’t want to face the world

It’s suffocating, suffocating

Ancora quel ronzio nella testa, lo stesso che permane dopo ogni sequenza di fulmini, anche la più fugace. Ho accumulato il voltaggio dell’atmosfera, che custodisco con gelosia. Non ho intenzione di scaricarlo a terra, ma di scivolare sul pavimento come farei sull’olio. Due fari rossi mi fissano dall’alto, occhi di demonio piangenti cristalli di neve appena abbozzati sulla parola inverno. Il disturbante ossimoro mi dà uno slancio perverso, mentre conquisto, pattinando, la mia vedetta. Appena in tempo per i dodici rintocchi, preludio di un catartico frastuono. Abbasso la guardia proprio quando non dovrei e il brusco aumento della gravità mi trova impreparato. I bicchieri di plastica scricchiolano sotto il mio peso, assorbo l’urto con impassibile sofferenza. Non una, ma ben sei corde si calano a prestarmi soccorso. Ansimando, risalgo la china.


Blind, spinning and out of phase

Rioting in rolling waves

Your eyes are the middle of hurricanes

And I’ll follow you all the way down

Una serie di colpi di precisione chirurgica e controllata violenza segna l’inizio del concerto effettivo. La voce della tastiera che si staglia, cristallina, sopra la sezione ritmica, carica l’ambiente di un magnetico fascino anni ’80 che si traduce con naturalezza nel sinuoso scuotersi collettivo delle teste. Espionage è indubbiamente uno dei cavalli di battaglia del recente New Material e la sua trasposizione sul palco, in questo caso, non solo certifica ma eleva la qualità di un synth punk d’avanguardia che suona a tutti gli effetti come un marchio di fabbrica della band canadese. La brillante cooperazione tra gli elementi fornisce il perfetto appoggio al canto collerico di Flegel – quasi a denti digrignati – fino alla tirata conclusiva che vede la chitarra di Daniel Christiansen prendersi la scena con una deriva a tinte oscure sulle sponde di Bauhaus e Chameleons. Il live prende quota con decisione e la sfuriata di Silhouettes consente ai Preoccupations di fare ciò che loro riesce meglio: suonare in modo veloce e inesorabilmente drammatico. Il drumming forsennato e le corde taglienti come rasoi diffondono nella mischia un palpabile desiderio di abbandono totale al flusso continuo in uscita dalle casse, indicativo del grado di alchimia che si sta raggiungendo nella sala. Appena il tempo di un breve ma fragoroso battimani e l’attacco perentorio di Antidote spezza ogni legame di razionalità col mondo circostante, compreso l’accesso ad intempestive riflessioni su di un’acustica (quanto meno) non impeccabile.

Wallace, che ha già buttato via la t-shirt anticipando l’arroventarsi del clima, produce un ritmo scheletrico, penetrante, in grado di convogliare gli spettatori in un vero e proprio stato di trance; il frontman gronda rabbia repressa mentre intona il suo sfogo contro la miopia della razza umana, nascosto sotto l’abituale ghigno, misto di angoscia e sarcasmo. Sono loro due i cardini attorno a cui ruota un dialogo che, nella successiva Decompose, vede gli altri componenti della band assumere sempre più un ruolo di preziosa ma modesta comparsa. Nel morboso incedere delle percussioni, Matt Flegel appoggia il basso capovolto sulla spalla e urla nel microfono sotto il gioco di luci rosse e blu intermittenti, a forgiare attimi d’incalcolabile suggestione. Zodiac si presenta, in quest’ottica, come una parentesi di onirismo kraut quanto mai necessaria, a suggerire che il suo inserimento in questo preciso punto della scaletta non sia un mero frutto del caso. Le unghie però sono molto affilate rispetto alla versione in studio – contenuta nel secondo e omonimo album – così anche un episodio che potrebbe garantire un immaginifico interludio al sapore di New Order, finisce per tramutarsi in una rabbiosa sparata che prepara il terreno alle ultime esplosioni.


Dancing in a graveyard of ambition

Resurrecting everybody’s desires and visions

Mi aggrappo alla linea dell’orizzonte con entrambe le mani; ignorando la fatica, faccio leva su di loro per riemergere. Frastornato e dolorante per il colpo di reni profuso, tiro il fiato mentre ammiro soddisfatto la materia che recupera i suoi contorni. Radici oscure si avviluppano sugli oggetti e sui corpi danzanti, abbagliate da una sincope di lampi. Poi, un vento sferzante si leva dal patibolo e sputa sulle ferite il sale in sospensione nell’aria. Il profilo dei quattro congiurati risalta sul fondale vitreo. Le ali si defilano e l’orrida galleria si assottiglia fino a ridursi ad un buco di serratura, grazie al quale posso spiare il preoccupante doppio gioco di una creatura bipolare. Il feroce bastonatore percuote la cassa toracica, il sadico visionario lacera carne con le parole. E’ macabra fascinazione, quella che mi inchioda al suolo. Resto attonito a contemplare il delitto che prende forma, in linea retta davanti ai miei occhi incastrati nello spiraglio.


Anchor to the bottom

You can see the current

Situation ending In and out of focus

Le brevi pause che la marcia ossessiva si concede, senza alcun tipo di regolarità, sono forse la parte più surreale della serata. I Preoccupations non conversano con il pubblico, non ringraziano al termine delle canzoni, evitano sistematicamente i cliché dell’esibirsi dal vivo e anzi ostentano un condivisibile ripudio nei confronti di essi. La poetica della disillusione di Flegel non prevede scambi verbali con chi gli sta dirimpetto, bensì una continua osmosi costruita sulle sensazioni, che colma da sola ogni vuoto e non richiede l’ausilio di futili appigli. Pochi istanti, destinati all’affiorare di frammenti di concretezza quali arsura e fischio nelle orecchie; poi, senza preamboli, le inconfondibili note di Disarray che inaugurano il gran finale. Una buona fetta della platea recita le strofe a memoria, dimostrando un apprezzamento ai limiti della devozione per quello che è stato un instant classic sin dall’uscita del lavoro più recente. Il Covo adesso è un autentico boiler, stipato in ogni ordine di posti, e Bunker Buster si veste per l’occasione da esemplare colonna sonora della realtà: giro di basso luciferino – quello che serve per innescare l’adrenalina – e poi il graffiante, coordinato attacco delle due chitarre sotto la regia implacabile del batterista, in preda ad una lucida e dirompente follia da suscitare invidia in qualunque dei suoi omologhi in attività. E’ lui, in effetti, a catalizzare la completa attenzione della folla: le frustate sul rullante che introducono Memory non sono semplicemente l’ennesimo saggio di padronanza dello strumento, ma un evocativo squarcio nel buio dominante dell’atmosfera che trova immediata risposta in un brivido lungo la spina dorsale. La band affronta con la caratteristica verve, ormai ben assimilata da ciascuno dei presenti, il capolavoro a due facce che opera nel modo più matematico la scomposizione della sua anima dark. La prima parte si dipana mediante una processione convulsa in ambientazioni sci-fi; la seconda, che si sviluppa di nuovo a partire da un’abbondante scarica percussiva, aleggia su territori di revival new wave sulle tracce dei migliori Future Islands. Si tratta dell’unica parentesi vagamente distensiva prima dell’epilogo, dedicato ad un ambo di must del periodo Viet Cong.

March of Progress, forte di un granitico e pulsante assolo di batteria sostenuto da eteree linee di synth, non richiede al contesto troppo tempo per trasformarsi nella solita, vivida esperienza sensoriale. La filastrocca brechtiana con cui Flegel si impadronisce del pezzo, quasi in chiusura, è uno schietto diversivo che precede – allo scoccare dell’una di notte – l’ultimo e più dilatato dei sussulti. In osservanza della crudele logica secondo cui in cauda stat venenum, Death suggella l’esibizione all’insegna della massima coerenza: la sei corde di Munro si perde da subito in loop paranoici senza soluzione di continuità che sorreggono la trama, ma è l’impeto rumorista della componente ritmica a prendere ben presto il sopravvento. Nel respiro misto di tensione e meraviglia all’interno del locale, la cavalcata si evolve a cataclisma di fracasso e distorsione in cui Mike Wallace si rende protagonista assoluto, costituendo una seria minaccia per i timpani dei convenuti. L’occhio di bue si sposta su di lui, la sua bionda sagoma ricambia picchiando energicamente sul ride per poi, subito dopo, immobilizzarlo con la mano opposta a soffocare lo spargersi delle vibrazioni. E’ l’istantanea definitiva di uno show memorabile, che si esaurisce nei bagliori finali di una suite prolungatasi oltre il quarto d’ora. I Preoccupations si congedano con impenetrabile compostezza, bypassando anche il tradizionale istituto dell’encore che è qualcosa di cui nessuno, in questo particolare frangente, sembra avvertire il bisogno. Con l’ovazione che si leva in crescendo di fronte agli strumenti, già rimasti incustoditi, cala il sipario sull’Inverno Fest #4 e sulla pagina di storia appena impressa nell’albo del Covo Club. Nelle anime dei superstiti, tossine sonore da smaltire e schegge di torbida memoria da ricomporre con infinita pazienza.


Holding you up to the test of time

It’s easy to see why everything you’ve ever been told is a lie.


Il soffitto si tinge di fuoco, l’impatto con una forza invisibile mi sbalza a qualche metro di distanza. Raccolgo stancamente le mie ossa, tentando di ripristinare un contatto visivo con la chimera che insiste nel suo dibattersi al centro della scena. Ad ogni sua mossa, le speranze appassiscono, i sogni si pietrificano. Ma vorrei abitare tra gli artigli della sua nuda ferocia, anziché nell’eden in cui coltivo ogni giorno fiori di plastica. Sul culmine della liturgia, mi scopro essere nient’altro che un’impalcatura di cenere. Finisco per cedere alla mia inconsistenza e mi disperdo nell’oceano di volume subissato da colpi di mortaio. La corrente mi trascina a ritroso nella coscienza, attraverso quelli che la mente provata inizia a riconoscere come corridoi. Poi, una stanza su cui campeggiano i volti di punk impertinenti, il bancone di un bar, una locandina fosforescente che ospita il programma degli eventi. Dettagli che riaffiorano, la realtà che protende le sue scomode braccia verso di me. Mentre mi attende puntuale, oltre la porta a vetro, nascosta tra gli alberi di Viale Zagabria.



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